lunedì 2 ottobre 2017

RIVOLUCASH

Aspettavo l’occasione, la concomitanza ideale di eventi talmente surreali che si incrociassero nelle stesse ore per raccogliere un po’ di voglia di scrivere qualcosa.
Bene, questo momento è arrivato.
La concomitanza della sparata esilarante del vicerè DiMaio sui sindacati e della pietosa vicenda della Catalogna merita qualche minuto di riflessione.
Partiamo dalla seconda.
Accorgendosi di avere il 20% del PIL del Paese e il 25% delle esportazioni dell’intera Spagna, i catalani decidono di saltare il fosso: ci mettiamo in proprio, non mandiamo più soldi a Madrid e per farlo ci agganciamo alla nostra antica autonomia linguistica storica e culturale.
Io vedo un certo filo marrone che lega una serie di leitmotiv del momento.
Mollare i migranti, mollare chi sta indietro, mollare il resto del mondo.
Il leit motiv è questo.
E in questa sagra globale dello stronzo, a infiocchettare questa torta al gusto feci ci trovi proprio quelli che per anni hanno martoriato lo scroto con l’aiuto alle zone meno sviluppate, con il ribellarsi al cinismo di chi sta meglio. Te li vedi inneggiare a chi scappa con la cassa ma con la maglietta di Ceghevara, in nome di una libertà di un popolo. Loro che hanno coperto di feci la Lega Lombarda e la Liga Veneta per le loro idee separatiste, ora si sono ritrovati con la Storia che si è divertita a mettergli in cortocircuito i fili della cecità ideologica, portandoli ad essere unitaristi in patria e leghisti all’estero. Inflessibili difensori della Costituzione se si tratta di schierarsi contro Renzi ma disinvolti orinatori della Costituzione spagnola se si parla di Catalogna. E se glielo fai notare ti ricordano che però la Catalogna è una nazione ben definita da millemila anni. E sti cazzi non ce lo metti? Abbiamo un assetto geopolitico che è il risultato delle ultime due guerre mondiali, di morti ce ne sono stati, direi anche troppi, ma capisco che settant’anni di pace in Europa rendano noioso lo stare al mondo. E si infilano nel tunnel della cosiddetta ribellione che, come sempre, è facile da incanalare verso l’avversario che crede invece nella difesa delle regole condivise.
E sempre sulla falsariga della voglia di conflitto travestita da rivalsa, vengo al secondo elemento, per la verità molto meno grave, di riflessione forzatamente scritta.
L’autoritaria ma non autorevole affermazione di Luigino DiMaio sulla sua intenzione di riformare i sindacati in caso di scarsa collaborazione degli stessi ha subito portato a paragoni direi eccessivi con espressioni simili proferite da dittatori.
Cosa si pensa, al bar, dei sindacati? Cosa si pensa, in pizzeria, dei sindacalisti? Quali sono i luoghi comuni più gettonati dopo la seconda birra media in una amabile discussione politica tra amici?
Ecco. Questo è il canovaccio del discorso.
E così, tra un cappuccino e una marinara con poco origano, tra uno Stravecchio e un Vov corretto vodka ci si abbandona ad ulteriori orinatine sulla Costituzione lanciando melliflui riferimenti alla prova di forza se necessaria per ricondurre alla ragione il sindacatume vario che in Italia ancora imperversa coi suoi privilegi.
Già, i privilegi.
La faccio breve, caro italiano medio: la cosa insopportabile del privilegio è che appartiene ad altri.
Tutto qui.
Teoricamente si chiamerebbe invidia, ma se la avvolgi in un drappo candido di difesa della legalità il tutto si chiama rivoluzione.
Tipo mettere una cacca di cane in una borsa di Louis Vuitton.
La prova del fuoco sarebbe concedere ad uno di questi rivoluzionari quel privilegio senza che si sappia in giro.
Ne vedremmo delle belle.
Meglio non indagare.
E meglio lasciar stare anche la Costituzione.
Deve asciugare.